Fare sport mi ha salvato la vita.
Lo dico a tutti, da sempre, quando mi chiedono perché durante l’attività sportiva io sia così appassionata e determinata, incurante della stanchezza, dei dolori fisici o del rischio dell’over training.
Da bambina altamente sensibile qual ero, incompresa e terrorizzata dal mondo esterno, praticare sport è stato il modo più istintivo e semplice per entrare in connessione con me stessa, e mi ha permesso, con il tempo, di diventare più consapevole dei miei limiti ma anche della mia forza.
Era, ed è ancora, una sorta di meditazione, un tempo sacro e personale il cui accesso è negato a chiunque. Non solo alle altre persone, anche quando mi alleno in compagnia, ma anche ai pensieri intrusivi e debilitanti di cui sono vittima spesso e volentieri, alle preoccupazioni e alle ansie dilaganti.
Nella ripetizione di un gesto, attraverso la gestione della fatica e del dolore fisico, mi focalizzo su me stessa, sul mio corpo, e mi pongo come unico obiettivo quello di portare a casa un risultato, che sia solo finire l’allenamento o vincere un match.
Nella vita ho praticato sport diversi, ed ognuno mi ha arricchito e regalato qualcosa di importante. Come minuscoli pezzi di un puzzle che piano piano, messi insieme, hanno contribuito a formare la mia personalità, aumentare l’autostima, a darmi struttura.
Alle PAS l’attività sportiva è fortemente consigliata, ma viene suggerito di evitare tutto ciò che sia particolarmente competitivo e faticoso, che possa portare all’esaurimento fisico e mentale.
Questo, però, non vale per tutte le persone altamente sensibili.
Io, per esempio, ho sempre praticato agonismo ed ho una predilezione per gli sport ad alto rischio.
Immersioni, sport da combattimento, nuoto in acque libere, nella vita mi sono regalata le esperienze più disparate, se non disperate, incurante dei pericoli.
Che problema c’è nel buttarsi giù da una montagna in sella ad una mountain bike senza rispettare i percorsi ma soprattutto senza neppure un caschetto in testa? Regole e protezioni sempre sopravvalutate, annullate dall’ incessante voglia di mettermi continuamente alla prova.
Questa mia caratteristica, che un tempo mi ha fatto dubitare di essere una PAS, ha contribuito a farmi sentire diversa tra i diversi, e quindi ancora più sola.
Eppure, nonostante la difficoltà nell’affrontare lo stress da gara ed il timore, a volte, di non riuscire a gestire situazioni totalmente al di fuori della mia zona di comfort, l’attrazione nei confronti del rischio, l’amore per l’avventura e sicuramente una buona dose di incoscienza – strana per noi PAS – non mi sono mai tirata indietro.
Grazie a Rolf Sellin (Le persone sensibili hanno una marcia in più –Ed. Urra) ho scoperto di non essere un caso eccezionale ma di appartenere al gruppo degli High Sensation Seekers.
Sellin mette in evidenza come tra le persone ipersensibili ci sia una nicchia che soffre in modo particolarmente importante il conflitto tra la propria natura conservativa e quella più spavalda ed imprudente, che si esprime, solitamente, quando vengono superati i propri limiti, ovvero quando si spezza l’equilibrio tra l’eccesso di stimoli e la loro mancanza.
Accade quindi che ci trasformiamo, come in Dott. Jeckyll e Mr Hide, in persone con caratteristiche opposte alla nostra natura.
Incanalare queste energie nello sport è il modo più sano e sicuro per sfogare quella che diventa una necessità non solo mentale, ma anche fisica.
Nella ricerca del rischio e dell’adrenalina ritroviamo noi stessi.
Negli anni ho capito che, in quanto High Sensation Seeker, sia importante riuscire a convivere con questi diversi e contradditori aspetti di me, cercando l’integrazione in tutti i settori della vita, non solo in quello sportivo.
Credo che soffocare il bisogno di avventura possa essere frustrante e pericoloso, ma essenziale è trovare un equilibrio al fine di evitare che ci si faccia del male.
In questo modo si darà un ulteriore valore alla propria unicità, nel rispetto del nostro sentire e delle nostre energie.
E voi? Che tipo di sport praticate? E come vi fa sentire?
A cura di Michela Ravelli, Facilitatrice gruppo Dialoghi Sensibili